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Diritto all’istruzione per le donne: perché a scuola non se ne parla?

Pubblicato il: 21/07/2014 12:27:14 -


“Boko Haram – L’educazione occidentale è peccato”. Il recente rapimento delle studentesse nigeriane pone un interrogativo sul diritto all’istruzione delle donne nel mondo e sulla scarsa attenzione che, proprio a scuola, viene posta.
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Nella notte tra il 14 e il 15 aprile, dal dormitorio del liceo di Chibok, nordest della Nigeria, sono state rapite 267 studentesse. A farlo e a minacciare di venderle o di costringerle a matrimoni forzati, la banda Jihadista Boko Haram, un nome che significa “l’educazione occidentale è peccato”.

Non è la prima volta che il diritto delle donne all’istruzione viene contrastato con la violenza dai fondamentalisti musulmani. Nel 2012 venne gravemente ferita in un attentato Malala Yousafzai, la giovanissima pakistana paladina dell’istruzione delle donne e candidata al premio Nobel per la pace. Ma la battaglia per la parità di genere nell’istruzione è tutt’altro che vinta, anche in luoghi di cultura non musulmana, come si vede fra gli altri in un paese a impetuoso sviluppo come l’India. Del caso nigeriano, tuttora irrisolto se non per una cinquantina di ragazze che i primi di luglio sarebbero riuscite a fuggire, i media hanno parlato a lungo, e continuano a farlo. Anche riferendo delle mobilitazioni delle”donne vestite di rosso” un po’ in tutto il mondo, dal Regno Unito all’Egitto, in Sud Africa, negli USA, in Nuova Zelanda.
La campagna “bringbackourgirls” lanciata su Twitter sta raccogliendo un’enormità di adesioni, sollecitate anche dalla testimonianza di personaggi carismatici come Michelle Obama e papa Francesco.
Anche In Italia, dove il 15 maggio è stato oscurato il Colosseo per accendere i riflettori sulle ragazze rapite, ci sono state molteplici iniziative di denuncia e di discussione, promosse anche da associazioni di donne musulmane.

Fa pensare, invece, che nel mondo dell’educazione la vicenda non sembra aver smosso in forme visibili le coscienze né provocato diffuse iniziative di riflessione. Setacciando accuratamente il web, il bottino informativo è a dir poco magrissimo. A discuterne in modo pubblico solo un paio di università, un’associazione o due di studenti, una di bibliotecari scolastici, qualche raro e generico passaggio in interventi a convegni e seminari di argomento educativo. Silenzio quasi totale, al contrario, nei siti del sindacalismo di categoria e dell’associazionismo professionale, nelle riviste specialistiche, nei blog su temi scolastici, nel pur frequente discorrere dei pedagogisti di maggior fama. Tracce più che impalpabili, inoltre, nei siti delle scuole superiori. Saranno forse tanti gli studenti e gli insegnanti italiani che hanno firmato a titolo individuale l’appello di “bringbackourgirls”, e non è improbabile che nei due mesi dal 15 aprile alla chiusura dell’anno scolastico ci siano state in qualche aula occasioni di sensibilizzazione e di riflessione, ma nell’insieme – e salvo augurabilissime smentite – c’è più buio che luci.
Eppure il diritto delle ragazze all’istruzione è stato un tema sensibile anche in Italia fino a qualche decennio fa, tant’è che l’impennarsi della partecipazione femminile all’istruzione superiore degli anni 80 fu salutato come un cambiamento epocale . Eppure i musulmani in Italia sono 1 milione e 400mila, e gli studenti di cultura musulmana nelle nostre scuole una presenza molto consistente. Eppure nelle scuole per adulti si sa benissimo perché per le donne pakistane e di altri paesi, bisogna spesso organizzare corsi d’italiano “in contesti non misti”. Ma, soprattutto, sono le nostre “Linee guida per l’integrazione degli studenti stranieri” a impegnare la scuola italiana a un’educazione “interculturale” che passi da conoscenze reciproche culturalmente più profonde di quelle assicurate dalla cosiddetta “pedagogia del couscous”.

Perché allora il caso nigeriano, che così apertamente sconfessa il diritto universalistico all’istruzione – diritto umano prima ancora che sociale – è passato quasi inosservato?
Si dà per scontato, forse, che le nostre studentesse e i nostri studenti non possano in alcun modo identificarsi con quelle ragazze velate, e oggetto di una furia integralista che fa delle donne e dei loro diritti l’icona di uno scontro di potere, e di una concorrenza aperta tra culture diverse, di dimensione mondiale. Ma è davvero così?
I nostri ragazzi così “globali”, così aperti al vasto mondo, così capaci di esplorare tutto l’esplorabile tramite internet, non possono essere o restare insensibili alla terribile minaccia – per tutti – della negazione dei diritti fondamentali. E la Nigeria, che è anche qui da noi e in cui magari succederà che alcuni di loro prima poi andranno a lavorare, non sta su Marte. Nessun paese – ci piaccia o no – è ormai un paese lontano.
Perciò la campagna lanciata su Twitter chiede di riportare a casa “le nostre” ragazze. Perciò Il silenzio della scuola è inquietante. Come si spiega?
Sarebbe importante discuterne, perché è anche da fatti come questi che si può capire lo stato di salute dei nostri sistemi educativi.

Si può ipotizzare una prudenza degli insegnanti di fronte al rischio sempre presente di un ulteriore sviluppo di pericolose pulsioni islamofobe o, più banalmente, xenofobe. Si può richiamarne la storica riluttanza ad addentrarsi in argomenti scottanti o controversi, che spiega le tante contrarietà a trattare in classe perfino le vicende della storia nazionale più recente (che diranno le famiglie?). Ma forse a mancare sono, in moltissimi casi, gli strumenti culturali che consentono di muoversi con sicurezza su temi non canonici, e appartenenti ai sempre più vasti mondi non contemplati da “programmi” che restano italo o, al massimo, eurocentrici.
Un problema serio, se fosse così, perché vanificherebbe ogni impegno autenticamente “interculturale” e, prima ancora, svuoterebbe di senso l’idea dell’istruzione come di uno spazio di vita fondamentale per maturare consapevolezza dei problemi del presente, per educare al riconoscimento e al rispetto delle libertà e dei diritti di ciascuno, per lo sviluppo delle capacità di guardare al di là del proprio naso.
O sono parole, anche queste, scritte sulla sabbia?
Che ne dicono, in proposito, gli insegnanti di storia e educazione civica?

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Immagine in testata in Facebook di Bring Back Our Girls e Flickr (licenza free to share)

Fiorella Farinelli

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